La definitiva caduta della Siria baathista, oltreché legittimare una spartizione che rafforzerà le rispettive posizioni nel quadrante asiatico-occidentale di Turchia e Israele, avrà anche un peso ‘energetico’. Il controllo dei pozzi, delle infrastrutture rimaste, nonché l’eventuale costruzione di nuovi impianti sono tutti fattori che interessano i mercati e le grandi multinazionali del fossile.
Quale Siria?
La fine della Siria baathista ha legittimato innumerevoli scenari, tra le incertezze e le instabilità del momento, con al centro il comparto energetico. Se l’esecutivo provvisorio ha già offerto rassicurazioni all’Occidente sulle aperture al libero mercato, due Paesi potrebbero riscuotere grandi dividendi geopolitici. La Turchia (principale sostenitore dei gruppi sovversivi ora al vertice) e Israele.
Contestualmente alle espansioni territoriali e delle influenze – fino alle possibili spartizioni della stessa Siria – saranno valorizzate nuove relazioni. In quest’ottica, anche le compagnie private dovranno rimodulare le proprie politiche. Del resto, dopo tredici anni di guerra civile, ingerenze esterne, sanzioni e isolamento internazionale, l’intero tessuto produttivo nazionale è stato pressoché distrutto.
Al contempo, come in ogni scenario afferente alla ricostruzione (post-bellica), per i “vincitori” si aprono enormi opportunità di investimenti, con alcuni progetti geo-economici che sarebbero già stati definiti.
La fragile attualità
Citando la Reuters e considerando che dal 2011, causa sanzioni, non ci sono più state esportazioni di petrolio, l’attualità non è ‘rassicurante’. Questo, nonostante ormai sui mercati energetici internazionali, il valore della Siria sia divenuto marginale.
Al 2022, tra enormi difficoltà, il fabbisogno elettrico nazionale era soddisfatto al 57,3% con il petrolio, al 38,4% dal gas naturale e al 3,8% dall’idroelettrico (dati IEA).
Prima di quell’anno, comunque, le produzioni ammontavano all’incirca a 383.000 barili di petrolio e derivati al giorno. Nel 2023, il valore è sceso a 40.000 barili. In termini di paragone, nel 2023, l’output degli USA è stato in media di 12,9 mln di barili di greggio al giorno. Alla voce ‘gas naturale’, invece, nel periodo 2011-2023 la produzione è crollata da 8,7 mld di metri cubi (m3) a 3 mld.
Multinazionali e infrastrutture
Dall’altro lato, coesistono gli interessi delle multinazionali e in particolare della Shell, della TotalEnergies e la canadese Suncor Energy, tutte presenti in loco. Bisognerà capire a chi andranno i pozzi (diversi dei quali sono stati sotto il controllo dei curdi) e comunque – con riferimento al comparto energetico – il perno sarà legato ai movimenti della Turchia.
Pur non essendoci una vera ed effettiva stabilità all’orizzonte, il Ministero dell’Energia turco si sarebbe offerto per aiutare nella ricostruzione delle infrastrutture energetiche. Allo stesso modo, si sarebbero riaperti degli spazi per recuperare un progetto su un gasdotto dal Qatar all’Europa.
L’infrastruttura transiterebbe per la Siria e, per l’appunto, attraverso la Turchia. Ankara accrescerebbe il proprio valore geo-economico e relazionale di hub. Il futuro resta lo stesso pieno di dubbi, a fronte di uno scacchiere molto lontano dall’essere ridefinito.