Al Governo (e non solo) piace il nucleare. Il ministro delle Infrastrutture è convinto dei vantaggi di questa scelta energetica per l’Italia: “Dobbiamo tornare nel contesto dei paesi moderni e sviluppati e competere ad armi pari con tutti gli altri”. Ma siamo sicuri che davvero questa fonte energetica sia pulita e sostenibile? Ecco qualche dato.
Salvini pronto al referendum sul ritorno dell’Italia al nucleare
È da un paio di anni circa che ogni tanto, periodicamente, si torna in Italia a parlare della convenienza o meno di un rilancio del nucleare.
Negli ultimi mesi, però, le dichiarazioni a favore di questa fonte energetica si sono moltiplicate, soprattutto da parte delle big energy del settore e di alcuni esponenti del Governo Meloni.
“Sono pronto a tornare a un referendum, argomentando il perche’ all’Italia convenga arrivare al nucleare pulito di ultima generazione”, ha spiegato in occasione dell’iniziativa “L’Italia del si‘” il ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini, presentando il piano infrastrutturale strategico del Paese da oggi al 2032.
Il ministro ha poi commentato: “Bisogna superare il no figlio dell’emozione di qualche decennio fa e dobbiamo tornare nel contesto dei paesi moderni e sviluppati e competere ad armi pari con tutti gli altri”.
Spesso si etichettano le posizioni ambientaliste non favorevoli al nucleare come “ideologiche”, o come in questo caso, “figlie di emozioni di qualche decennio fa”. Un pregiudizio questo sì ideologico, che difficilmente può contare sul sostegno della maggioranza della comunità scientifica mondiale.
Non sappiamo bene a cosa si riferisca il ministro quando parla di “emozioni di qualche decennio fa”, forse a Chernobyl in Ucraina, disastro nucleare del 1986 (tutt’oggi l’area non è accessibile alle persone per l’elevato livello di radiazioni), oppure ai disastri nucleari giapponesi di Tokaimura del 1999 o Fukushima del 2011?
Il ministro ha poi aggiunto che l’autonomia energetica rimane l’obiettivo primario del Paese e che il nucleare potrebbe dare una mano fondamentale in tal senso: “In sette anni si avrebbe un primo reattore modulare operativo”.
Tempi lunghi per costruire una centrale
Esattamente, quanto tempo ci vuole per presentare un progetto e realizzare la centrale? Difficile da dire. Il ministro parla di sette anni. Prima di lui Carlo Calenda di Azione ha addirittura ridotto il tempo medio a cinque anni.
Secondo i dati più aggiornati dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (IEA), una delle principali organizzazioni che si occupa dell’uso pacifico del nucleare, al momento in Europa ci sono solo due reattori in fase di costruzione, in Francia e Slovacchia.
Sui tempi, invece, ci sono dei dati contenuti nel World nuclear performance report 2022, pubblicato l’estate dell’anno scorso dalla World nuclear association (Wna), che in parte ci consentono di comprendere meglio quanto ci vuole concretamente per realizzare un nuovo impianto.
Secondo la Wna, i tempi medi sono di 88 mesi a livello mondiale per l’anno 2021, quindi in linea con l’affermazione di Salvini, ma già se prendiamo il 2019 come anno di riferimento, ecco che i tempi passano a 117 mesi, ossia anche nove anni.
In realtà non è facile stabilire una tempistica affidabile, perché dipende dal tipo di impianto, dal luogo e dai tempi burocratici. Secondo altri studi, dal 1950 ad oggi, facendo una media grossolana, i tempi medi sono di otto anni.
In linea di massima, dal 1990 ad oggi, nessun reattore nucleare è stato realizzato in meno di quattro anni, più del 50% in circa sei anni, un 10% circa in più di dieci anni.
Alcuni esempi di tempi allungati e di costi fuori misura
Sappiamo però bene che progetti del genere impiegano sempre molti anni per essere realizzati, esempi concreti sono il Vogtle-3 e Vogtle-4, negli Stati Uniti (data inizio lavori 2013, forse operativi quest’anno, quindi dieci anni di lavori) o il Flamanville-3 in Francia (data inizio lavori 2007, data fine lavori stimata entro il 2024).
I costi sono un ulteriore problema. Che spesso non viene affrontato alla lontana, o semplicemente rinviato. Un esempio in tal senso è proprio il Flamanville-3: costi stimati nel 2003 a 3 miliardi di euro, costi attuali di realizzazione passati a 13 miliardi di euro.
Sempre in Francia, EDF ha già inviato una proposta al governo per costruire sei reattori EPR2 per un costo totale di circa 50 miliardi di euro, si legge su Le Figaro. Ma i costi aggiuntivi saranno notevoli.
Nell’Unione Europea, secondo affermazioni del Commissario Thierry Breton, gli impianti nucleari esistenti avranno bisogno di 50 miliardi di euro di investimenti fino al 2030, mentre la prossima generazione di reattori richiederebbe oltre 570 miliardi di euro da qui al 2050.
Il problema delle scorie e della sostenibilità ambientale del nucleare
Non proprio economica come modello di transizione energetica. Senza contare dell’immenso problema delle scorie nucleari prodotte dalla fissione, che vanno stoccate in siti specifici, anch’essi estremamente costosi sia per la progettazione, sia per la manutenzione (i livelli di sicurezza devono sempre essere molto elevati).
La domanda da farsi, non è se è giusto o meno il nucleare (la nostra società, ai livelli attuali di consumo, richiede molte risorse energetiche, inevitabile lavorare su più fronti), ma se è davvero il caso o meno, dal punto di vista ambientale, sociale ed economico, puntare su questa tecnologia, che nuova non è e che già in passato ha dato prova della sua pericolosità.
Nucleare che poi non è pulito. In tal senso, l’unica possibilità sarà rappresentata dalla fusione nucleare, ma ci vorranno molti anni prima di vedere attivato un impianto del genere (dopo il 2050?).
Sullo stesso sito del ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica si fa la differenza tra fissione e fusione nucleare, che è necessaria onde evitare ambiguità e confusione (che sul tema non mancano mai).
In ultima analisi, per far funzionare una centrale nucleare serve l’uranio, che non è una risorsa illimitata, ne tanto meno rinnovabile. Secondo stime dell’IAEA sul pianeta ne disponiamo fino a 10 milioni di tonnellate.