Un gruppo di ricercatori dell’Universtià del Nebraska-Lincoln, negli USA, sta studiando il potenziale energetico dell’idrogeno, sfruttando direttamente le fratture della crosta terrestre.
Le potenzialità del rift
Negli USA, alcuni studi sull’idrogeno avrebbero direttamente messo in relazione la sua formazione con le fratture della crosta terrestre. Un gruppo di ricercatori dell’Universtià del Nebraska-Lincoln ha analizzato questo fenomeno concentrandosi sulla faglia che si estende sotto il Lago Superiore. Una frattura, che attraversa alcune aree del Minnesota, Michigan, Wisconsin, Iowa, Nebraska e Kansas.
Qualora effettivamente si riuscisse a sfruttare questo potenziale, ci sarebbero grandi benefici. Dall’interazione tra l’acqua e la roccia vulcanica, infatti, si formerebbe una tipologia di idrogeno assolutamente pulito, senza la necessità alcuna delle fonti fossili. Non producendo emissioni di anidride carbonica (CO₂), è per questo riconosciuto come uno dei principali vettori della transizione energetica.
Un grande aiuto, evidentemente, deriverebbe dalla morfologia stessa degli Stati Uniti. Circa 1,1 mld di anni fa, il continente si è quasi separato. Nella porzione centro-meridionale della placca nordamericana si è creato un rift – il Midcontinent Rift – con 1800 chilometri di rocce vulcaniche. Dalle prime stime, parziali, l’idrogeno naturale presente, coprirebbe una grande parte del fabbisogno ‘verde’.
Le tempistiche
Secondo il Servizio geologico degli Stati Uniti (USGS), nella crosta terrestre si troverebbero tra decine di milioni e decine di miliardi di megatoni di idrogeno.
Tuttavia, come hanno ribadito Hyun-Seob Song, Karrie Weber e Seunghee Kim – i protagonisti del progetto – le sfide saranno davvero di grande portata, visto quanto c’è ancora da imparare sul tema. Tant’è che il progetto si è ricollegato ad un precedente lavoro, finanziato dal Nebraska Center for Energy Sciences Research.
Per quanto riguarda gli studi in corso, hanno ricevuto una sovvenzione quinquennale di 1 mln di Dollari. Soldi essenziali, proveniente della Research Advanced by Interdisciplinary Science and Engineering (RAISE) della National Science Foundation (un’agenzia governativa che sostiene la formazione).
Tra sfide e ipotesi
I 1800 km analizzati si troverebbero ad una profondità compresa tra i 3000 piedi (circa 914 metri) e i 5000 piedi (circa 1524 metri). In primo luogo, conseguentemente, si tratterebbe di mettere a punto un’infrastruttura in grado di lavorare nel contesto di condizioni estreme.
Intanto, però, si è proceduto a verificare la fattibilità della produzione di idrogeno nel rift e già cinque anni fa si è perforato un pozzo di prova in Nebraska. I dati raccolti finora sarebbero stati promettenti. Addirittura, gli scienziati hanno ipotizzato uno scenario, se possibile ancora maggiormente incoraggiante, sebbene ‘relativo’.
In effetti, grazie alle condizioni geomeccaniche e biogeochimiche del rift, ci sarebbero delle limitazioni sia nella perdita che nel consumo dell’idrogeno naturale. Il che potrebbe lasciarlo quasi intatto, nei termini di “una scala economicamente significativa nel sottosuolo del Midcontinent”. Il problema, contestualmente, resterebbe la sua profondità. Anche per questo, ci sarà ancora un pochino da attendere.