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Dalla Svezia, la nuova batteria strutturale pronta a rimodulare il mercato

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I ricercatori dell’Università tecnologia Chalmers, con sede a Goteborg, in Svezia, hanno messo a punto una nuova batteria, le cui potenzialità potrebbero completamente ridefinire i sistemi di accumulo e stoccaggio dell’energia.

Nuove frontiere per le batterie

L’Università tecnologica Chalmers di Goteborg, in Svezia, si è proposta come nuova frontiera della transizione, sviluppando un nuova tipologia di batteria. Nelle specifico, come ha scritto EurekaAlert!, si è lavorato su una batteria [c.d.] strutturale, ossia in grado di immagazzinare energia ma anche di sorreggere il trasporto di carichi.

In pratica, oltre a fungere da ‘volano’, l’unità sarebbe contemporaneamente elemento portante, di per sé stessa base materiale dell’oggetto. I benefici, in termini di peso risparmiato, si tradurrebbero anche nel maggiore efficientamento energetico.

Del resto, l’elettrificazione è inscindibile dal deposito e dalla gestione controllata dall’energia stessa, ma anche da rapporto insito con la distribuzione delle masse. Si pensi solo ai mezzi di trasporto.

Le prospettive

I ricercatori scandinavi hanno sviluppato una tecnologia composita, in fibra di carbonio. Potenzialmente, sarebbe in grado di combinare la rigidità dell’alluminio con una densità energetica sufficiente per gli usi commerciali.

Nella sua versione più recente, la capacità raggiunta è stata di 30 Kilowattora per chilogrammo (Wh/kg). Un valore comunque inferiore alle batterie oggi sul mercato, ma dai presupposti certamente differenti.

Nella misura in cui si riuscisse a dare il via alla produzione ‘in massa’, si moltiplicherebbero le opportunità, con grandi finestre di investimento. Oltre ai trasporti, per esempio, tutta l’elettronica di consumo (cellulari, computer) si gioverebbe di una batteria così ‘flessibile’.

Potenzialità e dubbi

Come in tutti i sistemi elettrochimici, il transito della corrente muove dalla differenza di potenziale tra un polo negativo (-) e uno postivo (+). Il primo, a potenziale maggiore, è detto anodo. Il secondo, catodo.

Ebbene, nell’esperimento svedese, il valore aggiunto della fibra di carbonio è derivato dalla sua multifunzionalità. Questa, infatti, opera in qualità di rinforzo nell’anodo ed è contemporaneamente ‘impalcatura’, nel catodo, per il litio. Nella misura in cui il carbonio conduce gli elettroni, si andrebbe allora a ridurre la necessità di ricorrere al rame o all’alluminio. Da qui, il minor peso strutturale.

Al tempo stesso, il disegno della cella, ne aumenterebbe la sicurezza, rendendola meno soggetta al rischio di incendi. Ovviamente, però, anche di fronte ad un quadro così promettente non è mancato qualche dubbio.

Più che sull’effettiva capacità, in effetti, le ricerche dovranno parallelamente concentrarsi sul funzionamento degli elettroliti. Nei comuni accumulatori agli ioni di litio, infatti, le particelle si muovono mediante un elettrolita liquido.

Il passaggio verso un elettrolita semisolido, forse, rappresenta la sfida principale, visto che sarà necessario – affinché si giunga alla produzione di massa – sviluppare potenze sempre maggiori.

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