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Northvolt, storia di un fallimento che potrebbe trascinare con sé l’intera transizione green europea

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L’Europa rischia seriamente di perdere il treno delle batterie per veicoli elettrici con il caso Northvolt, nonostante le normative sul Green Deal e l’obiettivo di zero emissioni entro il 2035 abbiano creato un mercato promettente. Secondo Transport & Environment, solo il 10% dei progetti per nuove gigafactory di batterie si concretizzerà, mentre il 60% potrebbe essere cancellato o ritardato, con perdite di investimenti e posti di lavoro. La Cina e gli Stati Uniti avanzano grazie a finanziamenti massicci, mentre l’UE, con soli 3 miliardi di euro stanziati, necessita di almeno 50 miliardi entro il 2030 per costruire una solida filiera industriale. Un’azione immediata è cruciale per garantire competitività e sostenibilità.

Northvolt, storia di un sogno infranto

Era la startup europea nata con l’ambizione di guidare la transizione energetica e competere con i giganti asiatici delle batterie, ma Northvolt ha dichiarato bancarotta il 21 novembre, segnando la fine di un’era per il panorama industriale europeo. A seguito della dichiarazione, il fondatore e CEO, Peter Carlsson, ha annunciato le sue dimissioni. Ma come si è arrivati a questo punto?

Northvolt è stata un’azienda svedese specializzata nella produzione di batterie agli ioni di litio per applicazioni sostenibili, come veicoli elettrici, sistemi di stoccaggio energetico e tecnologie rinnovabili. Fondata nel 2016 da Carlsson (ex dirigente di Tesla, dove ha ricoperto il ruolo di Vicepresidente per la catena di approvvigionamento) e l’italiano Paolo Cerruti (già manager Renault-Nissan e poi Tesla), l’azienda è considerata da subito un vero campione nel settore delle batterie grazie al suo impegno per la sostenibilità e la produzione locale. Altra caratteristica di base, il focus sull’economia circolare, utilizzando materiali riciclati e garantendo che il 50% delle materie prime provenga da fonti sostenibili entro il 2030.

Investimenti record, risultati deludenti

La gigafactory non è fallita per mancanza di capitali. Con 15 miliardi di dollari raccolti, di cui 5 miliardi in sovvenzioni e prestiti da governi di Canada, Unione Europea, Germania, Polonia e Svezia, l’azienda sembrava avere tutte le carte in regola per eccellere.

Tra i principali investitori figurano titani come Goldman Sachs e BlackRock, mentre case automobilistiche del calibro di BMW, Scania e Volkswagen (principale azionista) avevano commissionato batterie per un valore complessivo di oltre 50 miliardi di dollari..

Eppure, il colosso svedese non è riuscito a rispettare le proprie promesse. La sua fabbrica principale, situata in una remota area della Svezia, ha operato ben al di sotto delle capacità previste, accumulando perdite enormi.

Una gestione sbagliata e troppo ambiziosa, focalizzata sull’espansione piuttosto che sul consolidamento delle basi operative, ha definitivamente aggravato la situazione.

Lezioni da imparare dalla caduta di Northvolt

Quali potranno essere le lezioni da imparare per evitare che in futuro si possano ripetere gli errori commessi con Northvolt? Ce ne sono diverse, ma ad esempio ne bastano solo due all’Economis, che vanno considerate fondamentali per continuare a sostenere la transizione ecologica ed energetica di un comparto a dir poco strategico per l’industria continentale e il suo Pil:

  1. La fiducia nei governi può essere ingannevole
    Investitori, banche e clienti hanno fatto affidamento sull’appoggio governativo a Northvolt, considerando l’azienda un investimento sicuro. Tuttavia, quando sono emersi i primi segnali di crisi, il sostegno pubblico si è rivelato insufficiente. Nonostante i problemi evidenti, lo scorso anno un consorzio guidato da JPMorgan Chase ha erogato un prestito verde di 5 miliardi di dollari, il più grande nella storia europea. La fiducia cieca nell’intervento pubblico potrebbe ora tradursi in perdite ingenti.
  2. Il rischio di politiche industriali inefficaci
    I governi europei hanno spesso sostenuto industrie nascenti con il fine di proteggerle fino a quando non diventano competitive. Tuttavia, se queste aziende partono troppo svantaggiate rispetto ai leader di mercato, il sostegno pubblico potrebbe solo ritardare il fallimento, senza mai colmare il divario tecnologico. Northvolt ha investito massicciamente in innovazioni, ma non è riuscita a trasformarle in prodotti commercialmente competitivi, rimanendo indietro rispetto a giganti asiatici come CATL e LG Energy Solution.

Una via alternativa: investimenti esteri diretti

Il caso Northvolt solleva interrogativi su come sostenere l’industria high-tech in Occidente. Un approccio più sostenibile potrebbe essere quello di attrarre investimenti esteri diretti da leader del settore. Aziende asiatiche come TSMC, CATL e LG Energy Solution stanno costruendo stabilimenti avanzati in Europa e negli Stati Uniti, portando con sé know-how e tecnologie all’avanguardia.

Il fallimento di Northvolt evidenzia i rischi di politiche industriali poco efficaci e una gestione aziendale eccessivamente ambiziosa. Guardare al modello asiatico di trasferimento tecnologico e accogliere investimenti esteri potrebbe rappresentare una soluzione per rilanciare l’industria europea delle batterie, garantendo un futuro più competitivo e sostenibile.

Il rischio europeo di perdere la corsa globale verso l’elettrificazione

A questo punto, abbiamo capito che l’Unione europea si trova a un bivio cruciale nel settore delle batterie, un pilastro essenziale per il futuro della mobilità elettrica.

Mentre il Green Deal europeo e l’obiettivo delle auto a zero emissioni entro il 2035 hanno creato un mercato di riferimento senza precedenti, la mancanza di investimenti adeguati rischia di compromettere seriamente la competitività del Vecchio Continente.

La certezza del mercato, un punto di forza contestato

Le normative europee, spesso criticate dalle aziende, hanno in realtà stimolato un’ondata di annunci per gigafactory dedicate alle batterie. L’obiettivo del 2035 ha fornito una certezza unica per chi opera nella produzione di batterie, componenti per veicoli elettrici (EV) e infrastrutture di ricarica. Tuttavia, questa spinta è oggi messa in discussione da costruttori automobilistici in ritardo nell’adattamento, fornitori di petrolio e sostenitori politici di modelli tradizionali.

Secondo Transport & Environment, solo il 10% dei progetti annunciati per nuove fabbriche di batterie in Europa è destinato a concretizzarsi. Circa il 60% dei piani rischia ritardi o cancellazioni, con la possibilità di perdere miliardi di euro di investimenti e fino a 100.000 posti di lavoro.

Investimenti insufficienti: il tallone d’Achille dell’UE

Il vero problema dell’Europa risiede nella mancanza di fondi adeguati per sostenere la crescita della tecnologia verde, soprattutto in un contesto di competizione internazionale feroce. A differenza di Cina e Stati Uniti, che hanno adottato politiche aggressive di finanziamento, l’Europa non ha ancora stanziato risorse significative per lo sviluppo della filiera delle batterie.

  • La Cina ha garantito linee di credito agevolate per produttori di batterie, componenti e minerali, consolidando la sua leadership globale.
  • Gli Stati Uniti hanno introdotto l’Inflation Reduction Act (IRA), con un budget nominale di 369 miliardi di dollari, che potrebbe arrivare fino a 1,2 trilioni di dollari (Trump permettendo), con quasi due terzi destinati alla catena di approvvigionamento delle batterie.
  • L’UE, invece, ha messo sul piatto solo 3 miliardi di euro attraverso un Fondo per le Batterie, il cui primo bando è stato pubblicato con oltre un anno di ritardo.

Secondo le stime di T&E, almeno 50 miliardi di euro di finanziamenti pubblici saranno necessari entro il 2030 per supportare la filiera europea delle batterie, combinando sovvenzioni, prestiti e strumenti di de-risking. Tuttavia, le rigide regole fiscali europee stanno soffocando gli obiettivi tecnologici e ambientali del continente.

Il gigante cinese

Da notare che il 70% circa della capacità mondiale di produrre batterie agli ioni di litio è di proprietà cinese. Basti pensare che il gigante cinese Contemporary Amperex Technology Co. Limited (CATL) da solo potrebbe arrivare a produrre entro la fine del decennio più di quanto faranno assieme Canada, Francia, Ungheria, Germania e Regno Unito.

La Cina ospita oggi sei dei dieci maggiori produttori di batterie al mondo. Oltre CATL ci sono BYD, Calb, Svolt, Eve, Rept. La metà della produzione ungherese è assicurata da CATL e Eve.

Una strategia da ripensare

Il caso Northvolt evidenzia i rischi di un approccio privo di una visione a lungo termine. La vera tragedia per l’Europa non è il fallimento di singoli progetti, ma la mancanza di una strategia globale per costruire una filiera industriale delle batterie.

L’ecosistema europeo del settore rischia di diventare un mix di produttori coreani e cinesi, con un numero limitato di aziende locali capaci di competere. Per evitare questa situazione, è urgente che i decisori dell’UE e dei singoli Stati membri rivedano le politiche commerciali e d’investimento, mantenendo al contempo inalterata la certezza del mercato EV del 2035.

L’Europa ha ancora l’opportunità di recuperare terreno, ma deve agire rapidamente. La creazione di una solida catena del valore delle batterie richiede investimenti massicci, politiche industriali innovative (senza il paraocchi degli interessi di parte) e la capacità di attrarre capitali esteri. Solo così il continente potrà garantire la propria resilienza tecnologica e rimanere competitivo nella transizione verso un futuro sostenibile.

Giornalista

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