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L’impatto dei centri dati sull’ambiente: un rischio per il clima mondiale

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I centri dati stanno sostenendo la crescita della domanda di elettricità, ma il ritmo elevato potrebbe rilanciare decisamente le fonti fossili, proponendo un rischio per il clima mondiale.

Energia per i centri dati

L’accesso e il controllo dei dati, oggi, sono tra le principali fonti di profitto ma per far questo c’è bisogno di enormi e potentissimi centri che siano in grado di raccoglierli e processarli. Lo ha ribadito la Reuters, rimarcando i possibili scenari futuri della questione. All’interno di questo settore, le grandi multinazionali dell’informatica hanno costruito una posizione di assoluta primazia.

Tuttavia, per alimentare il clouding, come pure l’intelligenza artificiale (IA) serve tanta energia, costantemente, tant’è che a livello globale si è assisitito ad un vero picco della domanda dell’elettricità. Per soddisfare questa necessità nell’immediato, le direzioni sembrano soltanto due.

Da una parte il nucleare, come per altro ha fatto la Google. Dall’altra, però, soprattutto rilegittimando fortemente l’utilizzo dei combustibili fossili. Su tutti, il gas naturale e il carbone. Il ritmo della diffusione delle energie pulite è infatti troppo lento per tenere il passo. A fronte di questa tendenza, gli effetti sul clima e sull’ambiente saranno senz’altro nocivi.

Un sistema complesso

Il fatto che da sole Google e Microsoft consumino più di cento Stati è una fotografia sullo stato degli ordini di grandezza del tema. Tra l’altro, nei soli USA, si trovano un terzo dei centri dati globali.

Ad ogni modo, l’impatto non deriva soltanto dalle aziende private, in quanto la raccolta e la razionalizzazione delle informazioni è ormai imprescindibile anche nei servizi pubblici. Si pensi soltanto alla mole dei dati (cartelle cliniche, referti) che ogni giorno producono gli ospedali o le scuole.

Tutto questo sistema rischia di aumentare ancora di più le politiche di difesa dell’ambiente. Una minimizzazione ‘dall’alto’ delle esternalità negative potrebbe infatti ledere gli interessi delle grandi società che magari investirebbero di meno in quei Paesi che adottassero delle legislazioni più restrittive.

Le incertezze sulle direzioni future

Nella COP29 di Baku si è provato ad affrontare questo aspetto della digitalizzazione, deliberando una dichiarazione di intenti che ha visto, tra i suoi firmatari, anche la Cina e la Sud Corea. La tendenza appare chiara. Eppure, a più riprese, si è sottolineato il non elevato impegno da parte del grande capitale privato. Il quale – almeno per il momento – alle parole non avrebbe dato seguito con i fatti.

La banca d’investimento Morgan Stanley ha previsto che l’industria globale dei c.d. data center produrrà circa 2,5 mld di tonnellate metriche equivalenti di anidride carbonica, entro la fine del decennio. Non certamente un vettore degli Accordi di Parigi del 2015.

Al di là delle prese di posizione simboliche o di mere dichiarazioni politiche, dunque, la direzione da intraprendere sarà unica e unitaria. Ossia, quella di un impegno tangibile congiunto tale che – in nome della decarbonizzazione – valorizzi delle soluzioni diverse per fornire l’energia che serve.

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