Gli Emirati Arabi hanno aperto il parco fotovoltaico più grande al mondo, mentre in Arabia Saudita si punta all’obiettivo 50% energie green entro il 2030. Ma investimenti nelle fonti fossili, temperatura e sprechi rischiano di frenare il trend.
Il processo di transizione energetica del Golfo persico
Cosa succede quando sei dei Paesi che producono più petrolio sul pianeta, nonché tra gli Stati con le temperature più elevate, provano a diversificare le loro economie, orientando un sistema storicamente fondato sulle fonti fossili verso le rinnovabili?
Questa è la domanda che si sta ponendo più o meno tutto il mondo a proposito del processo di transizione energetica che gli Stati arabi del Golfo persico (Arabia Saudita, Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Bahrein e Oman) stanno cercando di intraprendere, con risultati più o meno felici. Risultati da cui dipende, però, buona parte della riuscita dei piani per la lotta al cambiamento climatico a livello globale e che, dunque, ci interessano particolarmente da vicino.
Tra caldo torrido e sprechi di risorse
Per farsi un quadro chiaro della situazione, bisogna mettere innanzitutto in conto una serie di fattori che influiscono in questo processo di transizione. Primo, la temperatura: nei mesi estivi, l’area del Golfo può superare i 50 gradi (questi sei Stati si stanno riscaldando circa due volte più velocemente della media globale e si prevede che le temperature massime andranno oltre i 54 gradi entro il 2100) generando un consumo energetico pro capite tra i più alti del globo. Il Qatar è al primo posto, il Bahrein al quarto, gli Emirati Arabi Uniti al quinto e l’Arabia Saudita al quattordicesimo. Un trend che, con il tempo, potrà solo peggiorare: entro il 2100, a causa anche dell’aumento dei lavoratori stranieri, nell’area del Golfo è previsto un incremento di popolazione dagli attuali 59 milioni a 84, con un ulteriore consumo di risorse.
Secondo, il basso costo dell’energia: gli Stati arabi del Golfo hanno una delle produzioni di petrolio più economiche al mondo e, grazie ai sussidi governativi, la benzina ha un prezzo quasi irrisorio. L’elettricità, sovvenzionata sempre dai governi, costa ai residenti circa sei centesimi per kilowattora (per dare un’idea, in Europa il prezzo è di 30 centesimi e negli Usa 20). Questo fenomeno, combinato con il caldo estremo e le cattive abitudini degli abitanti, genera uno spreco di risorse non indifferente. “A Dubai, è normale lasciare l’aria condizionata sempre accesa, anche se si va via per settimane. Il Qatar ha le più grandi piste da jogging con aria condizionata del mondo. In tutti gli Emirati Arabi Uniti, l’acqua è così economica che alcune persone aprono la doccia solo per ascoltarla”, fa notare Bloomberg. Per non parlare poi degli enormi (e abbastanza inconcepibili) impianti sciistici dentro ai centri commerciali, che nei Paesi del Golfo stanno diventando una moda: lo Snow Abu Dhabi all’interno del Reem Mall della capitale è largo 9.700 metri quadrati, mantiene una temperatura interna di -2 gradi (mentre fuori ne possono fare 43) e contiene 20 attrazioni, tra cui una pista per slittini e una per toboga. Circa due volte più grande (22.500 metri quadrati) è lo Ski Dubai, resort sciistico inserito nel Mall of the Emirates, che ha al suo interno una montagna finta alta circa 25 piani. Anche l’Oman ha un resort sciistico gigante e l’Arabia Saudita ne sta costruendo uno.
C’è da sottolineare, però, che non tutti coloro che si trasferiscono nel Golfo frequentano piste da sci: circa la metà della popolazione dell’area è composta da migranti poveri provenienti da India, Nepal, Pakistan e Filippine: impiegati soprattutto nel settore edilizio e petrolifero, sono costretti a orari lavorativi lunghi e sfibranti sotto un caldo asfissiante. Human rights watch ha stimato in un rapporto del 2022 che nell’area muoiono ogni anno fino a 10mila lavoratori migranti, e “più della metà di questi decessi non vengono spiegati”.
Per dare un taglio allo spreco di energia, alcuni Stati del Golfo stanno provando ad applicare delle contromisure: il governo saudita ha iniziato già da qualche anno ad aumentare le bollette, rendendo più dispendioso lo spreco, e lanciando campagne di informazione pubblica per convincere le persone a usare meno acqua ed elettricità.
Gli Emirati Arabi Uniti hanno cominciato ad abbandonare alcuni dei sussidi profusi a favore dei carburanti, promuovendo invece il trasporto pubblico. All’inizio del 2024 la Dubai electricity & water authority, l’Autorità di Stato per l’energia e l’acqua, ha lanciato una campagna per chiedere ai residenti di “rendere le scelte estive intelligenti”, abbassando l’aria condizionata a 24 gradi (rispetto ai consueti 18) e annaffiando le piante nelle ore più fresche, evitando una repentina evaporazione.
Su queste premesse, Emirati Arabi Uniti e Oman si sono impegnati a raggiungere l’obiettivo emissioni nette pari a zero entro il 2050, mentre Bahrein, Kuwait e Arabia Saudita entro il 2060. Il Qatar, invece, non ha ancora stabilito il suo target.
Cosa stanno effettivamente facendo i Paesi del Golfo
Andiamo quindi a capire cosa si sta smuovendo nell’area, promesse a parte. Gli Emirati Arabi Uniti prevedono di produrre il 30% dell’energia da fonti rinnovabili e nucleare entro il 2030. Per questo motivo, hanno inaugurato l’anno scorso il parco fotovoltaico più grande al mondo: si chiama “Al Dhafra”, ed è una mega installazione che si estende per oltre venti chilometri quadrati nel deserto, conta quattro milioni di pannelli solari e produrrà due gigawatt di energia all’anno, soddisfacendo il consumo energetico di circa 200mila abitazioni. Gli Emirati hanno acceso nel 2020 anche la prima centrale nucleare del mondo arabo, e prevedono di investire 54 miliardi di dollari in ricerca e infrastrutture sul fronte energetico nei prossimi sette anni.
Di dimensioni simili il progetto dell’Arabia Saudita, che con l’impianto fotovoltaico “Sudair” vanta 1,5 Gw di produzione annua, e ha portato a quota 2,7 Gw il quantitativo complessivo di energia prodotto dal settore fotovoltaico nel Paese. L’Arabia Saudita si è posta come obiettivo di generare il 50% della propria elettricità attraverso fonti rinnovabili entro il 2030, mentre l’Oman prevede di arrivare al 30% entro lo stesso anno.
Proprio l’Oman è la meta prediletta degli investimenti di capitali esteri, in particolare dalla Cina: secondo QualEnergia, Hainan drinda new energy technology, società cinese costruttrice di celle solari, ha in programma la realizzazione di una fabbrica in Oman, con una capacità produttiva di celle pari a 10 Gw all’anno. La Cina vede nei Paesi arabi anche un mercato importante per la vendita di automobili elettriche.
L’obiettivo di Bahrein e Qatar è di produrre il 20% di energia tramite rinnovabili entro il 2030, mentre quello del Kuwait è del 15%. Se tutti questi traguardi venissero raggiunti, più di 80 Gw di capacità solare verrebbero aggiunti alla regione entro la fine di questa decade, quantitativo corrispondente all’incirca alla capacità di generazione di elettricità del Regno Unito. Le nazioni del Golfo hanno bisogno di rinnovabili anche per abbattere il costo della desalinizzazione, processo tramite cui il sale viene rimosso dall’acqua di mare. Questo procedimento ad alta intensità energetica impatta notevolmente sulle economie del Golfo persico, anche a causa (di nuovo) degli alti tassi di consumo dei cittadini: si parla per gli Emirati Arabi Uniti di 500 litri pro capite al giorno, quando in Europa se ne consumano 150. Se aggiungiamo a questo fenomeno l’aumento della popolazione, si prevede che la necessità di processi di desalinizzazione quasi raddoppierà entro il 2030.
Gli sforzi, però, sono ancora lontani dall’essere sufficienti. A dirlo è il Rapporto Irena dedicato al nuovo mercato delle rinnovabili nell’area del Golfo: “Nonostante gli aumenti significativi”, si legge nello studio, “i piani ambiziosi della regione e la maggiore competitività dei costi dell’energia solare, la quota delle rinnovabili nel mix elettrico rimane trascurabile”. Attualmente, Bahrein, Arabia Saudita e Kuwait viaggiano sull’1% (o anche meno), l’Oman al 6%, il Qatar al 7% e gli Emirati al 9%. La Norvegia, giusto per fare un paragone, ricava oltre il 70% della sua energia interna da fonti a basse emissioni di carbonio.
Inoltre, i Paesi del Golfo non hanno alcuna intenzione di mollare con la produzione di petrolio e gas, e contano soprattutto sulla tecnologia di cattura del carbonio per arginare le conseguenze. Le fonti fossili foraggiano il 30% del Pil degli Emirati Arabi Uniti e il 40% di quello dell’Arabia Saudita. Entro il 2027, quattro società energetiche regionali – Saudi Aramco, Abu Dhabi National Oil Company (Adnoc), Kuwait Petroleum Corp. e Qatar Energy – aumenteranno la capacità di produzione di idrocarburi di un altro 21% rispetto ai livelli del 2021, registrando un profitto collettivo che si aggirerà intorno ai 981 miliardi di dollari, una somma enorme, se paragonata ai 689 miliardi incassati dalle otto più grandi compagnie petrolifere degli Stati Uniti e dell’Unione europea. Nello specifico, l’Arabia Saudita sta investendo miliardi di dollari per aumentare la sua capacità di produzione giornaliera di petrolio a 13 milioni di barili entro il 2027 (rispetto ai 12 milioni attuali) e per aumentare la produzione di gas di oltre il 50% in questo decennio. Adnoc, la più grande azienda statale petrolifera degli Emirati Arabi Uniti, ha annunciato nel 2022 un investimento di 150 miliardi di dollari, diluito in cinque anni, per incrementare i progetti di petrolio e gas.
Un approccio che sarà probabilmente catastrofico per il resto del pianeta. “L’impatto più grande che gli Emirati Arabi Uniti hanno è attraverso il loro settore petrolifero e del gas”, ha sottolineato su Bloomberg Tom Evans, consulente politico presso il think tank E3G con sede nel Regno Unito. “Anche se stanno puntando a livello nazionale a produrre molta più energia rinnovabile, i piani di espansione del petrolio e del gas di Adnoc sono ancora il problema”.
Gli Stati del Golfo stanno effettivamente scommettendo di essere gli ultimi esportatori di combustibili fossili che resteranno a giocare la partita, una partita che però comporta anche dei rischi. “L’esportazione di petrolio e gas è ancora il fondamento assoluto delle economie qui, nonostante una certa diversificazione”, ha aggiunto Robin Mills, fondatore di Qamar Energy, società di consulenza energetica con sede a Dubai. “Se la domanda di petrolio e gas, o i prezzi, calano, allora avremo un grosso problema”.
In aggiunta, le emissioni di gas serra dell’area del Golfo sono più che raddoppiate tra il 2000 e il 2020: come registra il rapporto Irena, i sei Stati sono tra i maggiori emettitori pro capite di CO2 al mondo, con il Qatar primo in classifica e l’Arabia Saudita nona.
Gli occhi sullo sport
Per diversificare le economie, attirare i capitali dall’estero e rendere più trendy l’area del Golfo (oltre a nascondere la polvere sotto il tappeto) i sei Stati stanno avviando, parallelamente alla transizione energetica, progetti ambiziosi per diventare hub internazionali per l’aviazione, il turismo e l’intrattenimento.
Il Qatar ha ad esempio costruito degli stadi enormi, dotati di aria condizionata, per ospitare la Coppa del Mondo del 2022. L’Arabia Saudita ha lanciato il progetto Saudi Vision 2030, nato per diversificare un’economia basata quasi esclusivamente sul petrolio, spendendo anche somme astronomiche per accaparrarsi prestigiosi calciatori europei (e non solo). Altri, come Lionel Messi, hanno rifiutato le sirene saudite, anche se il fuoriclasse argentino ha poi firmato un contratto da 25 milioni di dollari annui per promuovere il turismo nello Stato. La regione del Golfo ospita inoltre quattro redditizie gare di Formula uno, e sta estendo le sue mire anche ad altri sport, come il golf. Nel 2023, Beyoncé ha tenuto un concerto esclusivo per inaugurare un hotel di lusso a Dubai.
Il nuovo impero arabo, citando l’ultimo libro di Federico Rampini sul tema, sta dunque tracciando a grandi linee la strada da percorrere nei prossimi anni. La direzione che prenderà effettivamente questa strada resta però tutta da scoprire.